In questo esilarante articolo del Times, la giornalista si è fatta una semplice domanda: “vorresti che tua figlia avesse una vita professionale come la tua?” ma dall’esito imprevedibile. Indagando tra amiche e colleghe, ha scoperto che la speranza è di arrivare ad un matrimonio altolocato che garantisca benessere e tranquillità alla propria prole. Con sconcerto e all’incredulità, la giornalista riporta i discorsi molto cinici – ma estremamente concreti - che sono alla base della paradossale risposta ricevuta dalle donne manager interpellate: “una vita come la mia, sempre di corsa? Non la augurerei neanche al mio peggior nemico”, “tanta fatica per niente”. E conclude con una frase che sembra un epitaffio: dopo anni di battaglie, non è il tetto di vetro, ma il sogno della mamma professionista che si è rotto. Chi si riconosce in questa drammatica riflessione? Io in parte, a momenti, sì: mi chiedo a tratti se davvero conciliare è possibile. E forse la mia quasi maniacale attenzione nel riportare dati, statistiche, studi e progetti sulle pari opportunità è un modo per aggrapparmi ad un’esile speranza. Perché fino a che non cambierà la mentalità a casa – dove la maggior parte del lavoro grava in maniera iniqua sulle nostre spalle – e al lavoro – dove persiste la logica tutta maschile “permanenza in ufficio – produttività- carriera” – fino ad allora noi saremo comunque perdenti. Perché giocheremo con regole che non abbiamo scelto, che ci hanno imposto, e che non tengono conto delle nostre qualità.
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