Ecco come mi piace parlare dell'8 marzo: un paio di giorni dopo, dopo le mimose dopo la festa simbolica, quando i problemi sono ancora là. Con un bel report dell'Ocse dal titolo "gender brief" che riassume tutti i divari di genere presenti nei principali Paesi sviluppati: da quello occupazionale, a quello retributivo, passando per quello di qualifiche nel mondo del lavoro. Ma quello che mi fa più male – e ne ho già ripetutamente parlato – è il così detto gender employment rate ovvero il tasso di occupazione in relazione al numero e all'età dei figli (pagina 9) . Perché in Italia non solo crolla in maniera proporzionale all'aumentare del nucleo familiare ma ancora peggio non aumenta di nuovo in relazione all'età dei figli. Lo considero peggio perché se un gap occupazionale è comprensibile – non dico auspicabile – quando il bambino è piccolo, la maternità diventa una sentenza incontrovertibile di uscita dal mercato del lavoro. Una via senza ritorno. Quando una mamma ha più di 40 anni e il figlio ormai va alle medie, non c'è verso per lei di rientrare e si trova rilegata a ruoli domestici suo malgrado. E' normale? I dati ci dicono di no: senza guardare ai Paesi Nordici, dove "lo svantaggio" di diventare madre se c'è è presto recuperato dopo i 5 anni del bambino (il tasso di occupazione da quell'età aumentano in media di un 10%) ma anche in Messico, Giappone e Turchia. Ma una donna, per di più con l'esperienza acquisita anche come madre, non ha davvero più nulla da dare?
Ecco l'utile vademecum: Scarica Ocse gender brief