L'interessante articolo di Francesca Modena e Fabio Sabatini "Lavoro e culle vuote. Quanto pesa la precarietà" (pubblicato sul sito in Genere, a questo indirizzo ) mi ha fatto riflettere molto. Dall'esperienza che ho raccolto in questi anni, la garanzia di un lavoro stabile non è di per sé un incentivo a fare figli né una garanzia di poter riuscire a conciliare meglio i tempi. Certo il "posto fisso" garantisce di avere pagata la maternità – cosa non da poco, ma che si applica anche ad altri tipi di contratti a tempo determinato - ma non garantisce di fatto di ritrovare al rientro lo stesso posto – la legge in teoria stabilisce diversamente, ma tra il dire e il fare.. – e non garantisce nessun tipo di facilitazioni nel riorganizzare il proprio lavoro, se necessario, dopo la nascita di un figlio. Allora perché non passare oltre questo binomio che ormai è un po' forzato posto-fisso – precarietà, dove la contrapposizione fa pensare da un lato ad una tutela di tipo garantista e dall'altro ad una perenne situazione di incertezza?
Io conosco molte persone, con preparazione ruoli e mansioni diverse, sotto la quarantina che parlano di "precarietà positiva" e invitano ad aggiungere una connotazione positiva al termine, o magari a cambiarlo proprio in flessibilità. Questo e' forse parte di un cambiamento culturale – lento ma inesorabile – in cui nel lavoro non si cerca – e non si trova, d'altronde – più un tutela completa e perenne ma un posto dove mettersi in gioco, dimostrare quanto si vale ed essere valutati sui propri meriti. Molte mamme- e a questa è riferita in particolare la mia esperienza – sono felici di avere contratti a progetto, di lavorare con partita via perché si gestiscono meglio il tempo, sono valutate non sulla presenza in ufficio ma sul raggiungimento degli obiettivi prefissati; mentre molte altre che hanno l'agognato posto fisso sono in una gabbia dorata, ma pur sempre gabbia, nella quale non riescono a muoversi come vorrebbero. Se ogni anno il 27,2% delle donne lascia il lavoro dopo essere diventata mamma – 50mila circa solo in Lombardia, tra le dipendenti – forse è perché il posto fisso inteso in un certo modo non è un'agonista meta.